Il cantante lascia il microfono e lo strumento. Per un attimo sparisce in basso, nelle ombre create dalle luci forti sparate verso il telone bianco, poi si rialza, il busto libero dal peso della chitarra, le mani occupate da un paio di bacchette. Si ferma, guarda gli altri due, alle prese con un ritmo trascinante fatto di rullate impetuose e ritmiche distorte, poi si avvicina al tom-tom libero davanti alla batteria.
E comincia.
Batte su quel tom-tom come se dovesse vendicarsi di un torto enorme, batte con una cadenza molto veloce che sembra quasi superare quella creata dagli altri due, batte e segue il movimento delle braccia con tutto il busto come in preda alle convulsioni. Noi lo guardiamo, li guardiamo, siamo in piedi davanti al palco tra altri corpi che ondeggiano, con i bassi che ci massaggiano l’addome. Poi mi accorgo di avere smesso di guardarli, mi accorgo di essere inchiodato a quelle due bacchette che vanno su e giù talmente in fretta da essere una striscia unica di bianco, le braccia che non si capisce quale delle due stia battendo. Riescono a mantenere quel ritmo forsennato per diverso tempo, ci tengono ben incollati, poi all’improvviso stop, silenzio, mani sulle corde e sui piatti per terminare ogni suono. Ecco, in quel momento mi sono sentito cadere.