Parcheggio la macchina davanti allo spiazzo che in estate viene occupato dal luna park. Questo tratto di lungomare è quasi disabitato d’inverno, soprattutto di sera, soprattutto tra settimana; infatti ci sono solo io. Mi incammino con calma lungo la strada chiusa che porta al mare, proteggendomi la testa dal vento con il cappuccio della felpa, e man mano che avanzo sento sempre più chiaramente il rumore ritmico della risacca. Proseguo fino a farmi quasi lambire gli anfibi dalle onde, lasciandomi alle spalle il cono di luce dell’ultimo lampione della stradina. Mi giro, la schiena rivolta al mare, verso quel tratto di spiaggia dove ero solito andare da bambino. Chiudo gli occhi e vedo, qui sulla destra, gli ombrelloni disposti a caso nella spiaggia libera, e più in là, a sinistra, quelli ordinati ed allineati dello stabilimento balneare. In mezzo, una specie di terra di nessuno senza ombrelloni ma piena di teli da bagno, e in fondo, vicino al viale, il campo da beach volley. Ci ho passato parecchi anni qui, ci sono praticamente cresciuto, giochi, amicizie, amori, un sacco di cose. Mi giro nuovamente e c’è il mare, che ora mi appare come una massa scura nel buio della sera, ma che rivedo azzurro e piatto. Ripenso alle ore trascorse con mio nonno pescando paganelli sugli scogli, ripenso a quello squalo di gomma che ho perso in acqua e chissà dov’è finito, ripenso alle fughe in moscone per lasciarmi alle spalle la calca dei turisti di agosto. Le prime nuotate al largo, con Enzo, mi sentivo un puntino galleggiante sopra la distesa blu, e mio dio chissà cosa mi starà passando sotto in questo momento. “Dai che non succede niente, cosa vuoi che sia, altre due bracciate e facciamo il giro degli scogli!”, e io mi fidavo quasi sempre, quasi perché quella volta non si è accorto delle meduse, e cazzo come pizzicavano. E quindi non glielo dicevo ma continuavo ad immaginarmi una sagoma scura che intravvedevo passarmi sotto, e in quei momenti le bracciate erano più veloci. Un mare affascinante e misterioso, agli occhi di un bambino. E mi ritrovo a riaprirli quegli occhi ora cresciuti, e c’è di nuovo la massa scura in movimento, una buona amica che ha però perso la sua parte misteriosa. Mi sento un po’ infreddolito e decido che è ora di rientrare, però vengo distratto da una serie di sassi piatti e levigati, finiti li chissà come, perfetti per essere lanciati, ed è un peccato non approfittarne. Due, tre, due, poi quattro salti. Osservo la traiettoria dell’ultimo, che ne fa cinque di salti prima di scomparire, e soddisfatto mi giro per andare, quando mi sembra di sentire un suono, una serie di “sciaff”, sovrapporsi a quello della risacca. Ruoto su me stesso per controllare, e qualcosa mi colpisce una scarpa, oppure colpisco qualcosa con la scarpa. Abbasso lo sguardo e vedo un sasso tondo, piatto, liscio, vicino al piede destro. Sorrido, e andando verso la macchina penso che forse, in fin dei conti, la parte misteriosa della massa scura non è sparita del tutto.