Falling down


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Mi sveglio con una patina di sudore sulla pelle scoperta, l’umidità della notte entrata dalle fessure degli scuroni che comincia a scaldarsi e appesantirsi e appoggiarsi su tutto il contenuto della stanza. Fuori, la brezza che arriva dal mare mi da un leggero sollievo, ma la sensazione dura poco e le prime gocce di sudore cominciano il loro percorso in discesa lungo la spina dorsale. La macchina è già un forno, ventilato appena apro i finestrini. Dagli stessi entra un odore pungente di resina calda, resina che si raffredda e solidifica attorno alla mia testa in un cerchio di dolore in divenire. Scendo dall’auto con il segno della cintura ben impresso sulla t-shirt, e l’ufficio mi accoglie come ripieno di invisibile gelatina. Il ventilatore fa sforzi inutili, l’unico effetto è quello di spingere in profondità il cerchio di resina dolorosa. Due gocce di sudore danno il la, partono assieme acquistando velocità e dimensioni e si infrangono rispettivamente sul tavolo e sul pavimento. Controllo la posta in arrivo con le braccia già incollate alla scrivania, poi salgo sull’auto aziendale e partendo mi godo il turbinio dell’aria condizionata che comincia a fare il suo dovere. Il sole entra di lato, dalla mia parte, scaldandomi la coscia sinistra e graziando l’altra. Rimpiango gli occhiali scuri, lasciati nella mia macchina; il cerchio continua a stringersi, a stringere. Il ritorno, diverse ore più tardi, è un tormento. L’effetto dell’aria condizionata si è annulato in pochi secondi, durante le tappe di carico e scarico, lasciandomi con la maglia inzuppata fastidiosamente aderente alla pelle. L’antidolorifico non sembra avere intenzione di fare effetto, il condizionatore è solo un ronzio rumoroso, negli occhi ho degli aghi di luce riflessa dai particolari simil-cromati degli interni dell’auto, e gli Zeppelin vengono brutalmente interrotti da una inutile telefonata di lavoro. Desidero l’ombra, una leggera brezza naturale, la superficie lievemente increspata del mare, nella quale galleggiare a corpo morto, come una immensa camera di deprivazione sensoriale. E invece.

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