Apro gli occhi con la sgradevole sensazione di essere impossibilitato a muovermi.
Provo, e le gambe, le braccia e la testa sono come bloccate su una superficie di gomma semirigida. Mani e piedi riesco a muoverli, ma questo non mi consola, anzi.
Qualcosa mi ostruisce la bocca, consentendomi comunque di respirare.
Chino a fatica la testa verso il basso, e mi intuisco steso su un lettino, ancorato da fasce, coperto da un lenzuolo dalla vita in giù; sento arrivare la prima, grossa, ondata di panico.
Percepisco e intravedo un ambiente asettico, freddo come le luci al neon che lo illuminano, macchinari, tubi, LED che si accendono e spengono, carrelli con attrezzi ben appoggiati in ordine: sono in una specie di sala operatoria.
Il panico è oramai una piena di fiume; mi dimeno, inutilmente, cerco di urlare, ma escono solo flebili mugolii. Non proprio inutilmente, perché una figura entra da sinistra nel mio spazio visivo.
Non è riconoscibile, ha il capo coperto da un qualcosa di tessuto, una grossa maschera con lenti opache davanti a occhi e naso, una mascherina verde per la bocca, e quello che può essere un camice che parte dal collo e arriva dove io non riesco a vedere.
Si avvicina lentamente, e mentre mi sforzo di capire chi è, una luce abbagliante si accende sopra il mio volto, vanificando ogni mio sforzo. L’unico dettaglio nuovo che percepisco è lo strumento di metallo, lungo e scintillante, che tiene in mano.
Perdo il controllo e urlo, senza riuscire ad emettere un suono.
La figura si avvicina, mi appoggia la mano avvolta nel guanto di lattice sul torace, e noto il tessuto della mascherina deformarsi a causa del sorriso spuntato sulla bocca che non vedo, come a volermi tranquillizzare. Come un sussurro impercettibile, “Non ti farò male”. E alza lo strumento che ha in mano.
Non è un bisturi, ma la lama c’è tutta. La vedo scintillare, una lama senza fascino, dritta, fatta con uno scopo unico: tagliare.
E comincia ad usarla, senza preavviso.
Io urlo di nuovo, un urlo lungo e silenzioso, in attesa di sentire arrivare l’ondata di dolore.
Quando la gola brucia, smetto, ché il dolore non è arrivato, nonostante la figura stia proseguendo con il suo lavoro di incisione.
Sento la lama scendere nella carne, sempre più giù, la sento curvare per percorrere lo spazio vuoto tra due costole, sento il sangue scorrere lungo il fianco, la sento emergere dal taglio, sento il rumore di lacerazione quando le mani allargano il taglio, sento la pressione sulle costole, sento il crack delle stesse quando la pressione è diventata sufficiente, ma no, come aveva detto la figura che si sta accanendo su di me, non sento dolore.
Il lavoro procede febbrile, tra crack e incisioni, io e la figura oramai verniciati del mio rosso cupo, e finalmente termina, con il rumore della lama appoggiata a qualche superficie metallica.
Io, che avevo distolto lo sguardo, spettatore/protagonista insensibile di quello scempio, riabbasso gli occhi, e vedo la figura con un cuore, il mio cuore, ancora sprizzante sangue, in mano.
Il sorriso deforma nuovamente la mascherina, e un nuovo sussurro “Questo lo tengo io, a te non serve”.
Poi solleva la maschera opaca, e riesco così a vedere gli occhi della figura, e la riconosco immediatamente. Con dei mugugni le faccio capire che voglio parlare, e sento la bocca finalmente libera.
“Cretina che non sei altro, brutta testa di cazzo, è sempre stato tuo, c’era bisogno di fare tutto questo casino?”
Poi mi sono svegliato.
E magari uno si chiede per quale motivo alle sette della mattina abbia già voglia di dare fuoco a chiunque.