Comincia tutto con il rumore della risacca, steso sul lettino ad un paio di metri dalla riva.
Il rumore, ritmico, accompagna le percussioni, lente, del battito del cuore.
Il brusio delle voci di chi resta a pranzo, sotto l’ombrellone, è basso e distante.
La pelle è coperta da uno strato umido, le gocce di sudore scendono dal torace verso la schiena, andando a morire sul telo.
È l’ora del bagno, uno dei tanti, senza soluzione di continuità.
Mi immergo piano piano nell’acqua, assaporandone la freschezza che mi risale lungo il corpo. Caviglie, polpacci, cosce, i testicoli che si restringono, la schiena che manda brividi.
L’acqua ora mi arriva al collo.
Alzo le gambe, sposto indietro la testa, allargo le braccia a croce e lascio che l’acqua mi ricopra fin dove desidera.
Le orecchie sono immerse, tutto mi arriva attutito, distante.
Rallento il respiro, mi concentro sul galleggiamento, attendo.
Ed eccolo.
È una specie di tonfo, sordo, come se al mio corpo fossero attaccati dei pesi e fossi arrivato, planando lentamente, sul fondo di una piscina.
La percezione del tempo e dello spazio viene meno, e se proprio mi interessa, posso intuire come sono orientato sentendo da che parte vengo colpito dalle onde.
È uno stato di equilibrio perfetto, fisico e mentale.
Vorrei che non finisse mai.
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