Categoria: life

  • Stato di deprivazione sensoriale

    Comincia tutto con il rumore della risacca, steso sul lettino ad un paio di metri dalla riva.
    Il rumore, ritmico, accompagna le percussioni, lente, del battito del cuore.
    Il brusio delle voci di chi resta a pranzo, sotto l’ombrellone, è basso e distante.
    La pelle è coperta da uno strato umido, le gocce di sudore scendono dal torace verso la schiena, andando a morire sul telo.
    È l’ora del bagno, uno dei tanti, senza soluzione di continuità.
    Mi immergo piano piano nell’acqua, assaporandone la freschezza che mi risale lungo il corpo. Caviglie, polpacci, cosce, i testicoli che si restringono, la schiena che manda brividi.
    L’acqua ora mi arriva al collo.
    Alzo le gambe, sposto indietro la testa, allargo le braccia a croce e lascio che l’acqua mi ricopra fin dove desidera.
    Le orecchie sono immerse, tutto mi arriva attutito, distante.
    Rallento il respiro, mi concentro sul galleggiamento, attendo.
    Ed eccolo.
    È una specie di tonfo, sordo, come se al mio corpo fossero attaccati dei pesi e fossi arrivato, planando lentamente, sul fondo di una piscina.
    La percezione del tempo e dello spazio viene meno, e se proprio mi interessa, posso intuire come sono orientato sentendo da che parte vengo colpito dalle onde.
    È uno stato di equilibrio perfetto, fisico e mentale.
    Vorrei che non finisse mai.

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  • Carne e sangue

    Carne, sangue.
    Siamo dei pasti deambulanti, protetti da un inefficace strato di pelle.
    In balia di chi arriva, morde, porta via brani di tessuto, lasciando sanguinanti ossa esposte, rigate dai denti.

  • I racconti della casa nuova – Un breve sopralluogo

    L’acqua nel fiume non è molta, e scorre lenta verso la foce. In direzione opposta, una serie di onde svela un pesce che risale la corrente. Le canne frusciano come un mormorio, scosse appena dalla leggera brezza. Un turbinio di rondini percorre la superficie dell’acqua a caccia di insetti, e le più avventate – o distratte – mi volano vicino, affacciato al piccolo balcone.
    Sento di volerle già bene, alla casa nuova.

  • Mossismo involontario

    Una volta facevo il fotografo, dice l’uomo. Fino a quando non è iniziata la malattia e sa, le foto mosse non piacciono a tutti; così vado nei posti che mi piacciono e mi fermo a guardare, perché sta tutto lì sa, nel guardare le cose e vederci dentro. Non posso fare altro, guardo.

    Il periodo precedente l’ho estrapolato da questo post scritto ieri da Squonk, un post da un lato molto bello, ma che mi ha dato anche da pensare. L’idea di finire come l’uomo del racconto mi spaventa molto. È che le braccia tremano abbastanza, a volte, il dottore dice di non preoccuparmi, che è una questione di nervi, lo stress, l’ansia, però ecco, ci penso, e tremo un po’ di più.

  • Thank you

    Stefania.
    Marco, la Cate, Simone e Bicio, Luca, Simone e l’Elena.
    Elena, Francesca, Vincenzo, Emanuela, Federica.
    Michela e Matteo, Elisa.
    Le Mondine.
    Corrado.
    Benedetta & family.

    Spero di non aver lasciato fuori nessuno. Grazie per il bellissimo Natale. REsistiamo.

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  • “E tu? in tutto questo, tu?”

    Capita che ti trovi a scrivere una cosa a quattro mani con una amica, una cosa tu ed una lei, e via, ognuno seguendo il flusso dei propri pensieri. L’ultima battuta è stata tua, sei soddisfatto, le metafore che hai usato rendono bene, e ora tocca a lei. Lavori, fai altro, non ci pensi. Poi un (1) nel tab di GMail, il primo in alto a sinistra nel browser, quello che è praticamente sempre aperto, attira la tua attenzione.
    “E tu? in tutto questo, tu?”
    Leggo quella singola frase due, cinque, dieci volte. Altrettante controllo il mittente.
    Lei, l’amica, non lo sa – ora, se legge il post, sì – ma è una gran mazzata, al sapore amaro di déjà vu. Estrapolata dal gioco di scrittura e sbattuta nella vita reale, è un invito ad un bilancio, cosa che – da qui il déjà vu – sto facendo da un po’. E tirate le somme, il numeretto tende al negativo.
    Io, in tutto questo, non vado bene.
    Sono vuoto.
    Arrabbiato.
    Cerco lo scontro, fortunatamente non con tutti.
    Noiosamente cinico.
    Un esempio? Le bombe di Boston. Dopo l’iniziale dispiacere, semplicemente non me ne frega un cazzo. Suona malissimo, ne sono consapevole, ma è così.
    Non mi riconosco e mi faccio paura.
    “E tu? in tutto questo, tu?”
    Io? Non lo so, fatico a capire chi sono.

  • Cocci

    Ho preso tutto l’occorrente: la scopa, la paletta, un setaccio giocattolo, la colla, i cerotti. E pian piano ho iniziato a ripulire, a filtrare e rimettere assieme i pezzi. Ma è un lavoro lungo, e allora man mano che rimane qualcosa nel setaccio lo prendo e lo metto in un sacchetto, poi quando me la sento prendo colla e cerotti e proseguo a ricomporre questa specie di puzzle 3D. Non so quanto tempo ci vorrà per finirlo. So che adesso è incompleto e tagliente, e se non sai da che parte prenderlo rischi di farti male.

  • Credo

    Credo che alla fine dei giochi ci sia un profondo, fortissimo desiderio di estate. Piedi nudi, bagni a marina dopo l’ufficio, telefono muto che sticazzi se suona, granelli di sabbia come segnalibro, caldo sulla pelle, gocce che si asciugano addosso, sale nei capelli, appuntamenti sul telo da bagno, baci fino a notte fonda. Perché alla fine dei giochi, questo inverno, vero o metaforico esso sia, ha profondamente rotto il cazzo.

  • Keep on moving [*]

    [*]

    Il movimento è la metafora che io e la Doc abbiamo scelto, grosso modo l’anno scorso, per definire il mio rapporto con le cose che succedono. C’è questa strada, me la immagino che taglia un paesaggio sconfinato, come possono esserlo certi scorci scandinavi. Io mi ci muovo dentro, a volte deviando lungo un sentiero interessante, a volte inciampando su pietre e rami, altre correndo lungo discese ripide.
    Adesso davanti c’è una salita.
    Ma non mi spaventa, anzi, la vedo come una bella sfida.
    Sono pronto.
    Il fisico. Durante l’ultimo periodo ho seguito una preparazione atletica molto particolare, che mi ha permesso di restare immobile per molto tempo e scattare non appena le condizioni sono state favorevoli; muscoli leggeri ma resistenti, niente zavorra inutile da portarmi dietro.
    L’attrezzatura. Ho uno zaino comodo e capiente, di quelli che sì, li senti, ma non gravano sulla schiena. Dentro ci sono un sacco di pietre da metterci sopra. Ci sono quelle parole che non si possono dire, ben custodite nel cellophane, così non perdono la loro fragranza originale. Ci sono gli anni passati sui muri di Tetris, che se tutto va bene mi serviranno ad arredare 7mq o poco più. Poi ci sono degli spazi vuoti, ché alcune cose le ho spostate sulla pelle, e così se lungo la salita trovo qualcosa di interessante posso portarlo con me senza impedimenti.
    La mente. Parto con la consapevolezza che non sarà l’ultima salita della mia vita. Certo, sarebbe stato senza dubbio più piacevole trovarci un bel prato che si perde a vista d’occhio, in cima a questa salita, e fermarsi lì; certo, la salita, a farla in compagnia, sarebbe stata meno pesante. Ma nulla vieta di trovare un’altra salita da fare assieme, o un prato più bello e spazioso nel quale fermarci. Ora, dunque, mi godrò l’adrenalina della sfida, e basta.
    Quindi, dita incrociate ché, sistemati gli ultimi dettagli, magari tra qualche giorno parto.
    Chi mi ama stima, mi segua.