Amico costruttore di automobili, ti scrivo questa lettera aperta per darti – in quanto utilizzatore delle tue costruzioni – un consiglio, un piccolo suggerimento. Seguo con interesse gli sviluppi della tecnologia automobilistica, sono affascinato dalle dimostrazioni delle auto a guida automatica, e quindi, con lo sguardo verso il futuro, mi chiedo: perché non dotare le automobili di un dispositivo che impedisca l’accensione degli abbaglianti in autostrada? Vuoi per distrazione, vuoi per fallocefalìa, molti automobilisti peccano, da questo punto di vista, ed io, da parte mia, risparmierei di muovere dei bilichi di porchiddii ogni volta che oltrepasso un casello.
“Ecco cosa sei. Sei una maledetta bomba a tempo, accidenti.”
L’affermazione ad alta voce mi coglie impreparato in uno dei rari momenti in cui gli auricolari non emettono alcun suono. La ragazza siede di fronte a me, a fianco di una donna di mezza età che indossa il hijab, il velo islamico. I suoi lineamenti sono vagamente orientali, quindi potrebbero essere parenti, ma durante il tratto percorso insieme non si sono rivolte alcuna parola, dunque non so. Potrebbe avere una quindicina di anni, ed è totalmente sprofondata dalla musica che esce dai suoi auricolari; riemerge ogni tanto dalle profondità per controllare le notifiche dello smartphone, probabilmente dei messaggi in chat. E non serve sbirciare alle sue spalle per capire il tono dei messaggi, basta guardarla in volto: è come se indossasse una maschera di gomma con capacità espressive incredibili. Stupore, complicità, un bonario rimprovero, è tutto lì, tra i suoi muscoli facciali. Fortunamente gli auricolari riprendono il loro lavoro, così riesco a smettere di fissarla con insistenza, ché non ho voglia di rompere le balle a nessuno, e comincio a giocare di sponda, usando il riflesso del vetro. Una bomba a tempo, ha detto, voglio capirne di più. La vedo leggere il schermo dello smartphone ancora un po’, ogni tanto solleva gli occhi per vedere se qualcuno la fissa, poi di nuovo giù, e finalmente sposta il telefono sotto il maglione che ha, piegato, sulle gambe. Dal morbido della lana emerge un piccolo libro, aperto, e in mezzo alla V delle pagine un biglietto del treno, per segnalibro. Boooom, mistero svelato. Prende in mano il biglietto, e comincia a fissarlo, e lo fa per quattro minuti buoni, me lo ricordo perché nel frattempo mi sono ascoltato tutta Indifference dei Pearl Jam. Un guardare monoespressivo, questa volta, gli occhi fissi e molto stretti sulle scritte del biglietto, come se i caratteri perdessero coesione cominciando a formare chissà quale disegno. Dunque il biglietto le ha fatto tornare a mente un ricordo, non positivo direi, dalla reazione che ha avuto, e parecchio intenso. Sarà stato un viaggio intero, oppure solo il ritorno? Sarà stata una persona specifica, oppure il luogo e basta? Questo non sono riuscito a comprenderlo, purtroppo. Mollo il colpo e mi perdo nei miei pensieri, valutando per un attimo se possa essere curioso tirare fuori il mio innocuo, disinnescato Kindle.
A Londra c’ero stato in gita alle medie superiori, quindi grosso modo vent’anni fa – ometto il commento sul tempo che passa – e l’ho trovata sensibilmente cambiata, per quel che posso ricordare. Non che sia andato su con il pensiero di “Oh, mamma, guarda come è diversa!”, però ecco, qualcosa m’è saltato all’occhio. Ma andiamo con ordine.
La preparazione. Considerata la mia scarsa – sigh – dimestichezza con voli aerei & co, mi sono affidato completamente al mio tour operator personale, Angelo. Scelta azzeccatissima, grazie mille e hat tip per l’organizzazione! Il volo A/R è stato con Ryanair, quindi l’unica preoccupazione era la gestione del bagaglio a mano. Ho viaggiato leggero: l’essenziale per l’igiene personale, qualche cambio di biancheria intima e t-shirt, un giubbotto pesante e poi basta, con il trolley praticamente mezzo vuoto, e pronto per ospitare gli eventuali – “Sai, in febbraio, ehm, andrei a Londra per un weekend con Angelo…” “Bene! Allora mi prendi questo, quello, e quell’altro ancora. Ah, poi magari anche, già che ci sei, …” – acquisti. Avendo però la borsa a tracolla con la macchina fotografica, temevo che quest’ultima potesse far storcere il naso agli addetti al check-in e fossi dunque costretto ad imbarcare l’eccesso nella stiva. E invece tutto liscio, trolley sopra la testa e tracolla in mezzo ai piedi. Ah, nota a margine, imbarco prioritario tutta la vita, ne vale la pena – soprattutto se poi il sistema informatico di Ryanair non ti addebita i costi.
Il volo. Tutto tranquillo, pochi scossoni. Importantissimo: un paio di cuffiette per eliminare i fastidiosi spot pubblicitari Ryanair, il napalm per eliminare chi applaude a fine atterraggio.
Il cimitero di Highgate. Il cimitero richiede un post a parte, tanto m’ha colpito. Nel frattempo, un paio di foto, e il link al set completo su Flickr. Verde Flooding
Carnaby Street. “Angelo, dove cazzo sono finiti i punk?” Segue una precisa spiegazione sulla evoluzione di Soho, da quartiere malfamato a zona alla moda, e la conseguente sparizione dei ragazzi con creste colorate e similari. Insomma son rimasto un po’ deluso, mi aspettavo i tipici negozi con le cose strane, e invece c’è un Uggs Store.
Camden Market. Me lo immaginavo piuttosto turistico, ma devo ammettere di essere rimasto affascinato dall’atmosfera e dalla vivacità del posto. Una lunghissima sequenza di stili e odori e colori, mescolati tra loro fino a formare un caos armonico che fa bene agli occhi, non saprei in quale altro modo descriverlo.
Vario ed eventuale. L’autobus a due piani, di sopra, proprio davanti al vetro. Il British Museum, mi pare ancora incredibile il poterci entrare gratis. I ragazzi italiani che fanno gli uomini sandwich per la moltitudine di tattoo studio presenti a Camden. Il merluzzo del fish’n’chips, buonissimo. Il fish’n’chips che non ha la licenza per gli alcoolici, quindi prima passi al market per prendere da bere, poi ti siedi al tavolo e i camerieri vengono a stapparti le bottiglie. La spiegazione sulle tipologie di pub, e quella birra scura bevuta al pub dopo cena. E mille altre cose che ora non mi vengono in mente, ma va bene così, mi piace quando mi sovviene un dettaglio e mi perdo a ripensarci. Qui, se ne hai voglia, c’è il set delle foto che ho scattato.
Tra pochi giorni prendo il mio secondo volo intercontinentale, abbiamo fatto i passaporti e indossiamo entrambi una maglietta rossa, lui ha letto la guida da capo a piedi, io dei romanzi da capo a piedi, faremo il giro delle sette case, come fossero chiese, andiamo a vedere i pinguini e le cascate: insomma, andiamo in Argentina, fino alla fin del mundo, principio de todo, che basterebbe, da solo, a motivare un viaggio. (Figurarsi un viaggio di nozze.)
Mi porta in capo al mondo, ha detto.
Due amici stanno per partire per un viaggio, non so quanto durerà ma vanno lontano, quindi sarà un lungo viaggio. Vanno in Argentina, vanno fino a Ushuaia, che è proprio giù, in basso. Buon viaggio, amici.
Io non so se lo farei, un viaggio, lì, in Argentina; forse neanche in Cile, sull’altro lato della Cordigliera delle Ande. E mica perché ho qualcosa contro il Sud America, anzi. È per la loro forma, lunghi e stretti, e anche per una questione di età, la mia. In passato ne ho girati un paio, di stati più o meno lunghi e stretti, tipo Svezia e Norvegia. Ma appunto in passato, con pensieri e percezioni differenti da quelle attuali.
Un viaggio del genere è un moto diritto, un moto che segue ipoteticamente una linea retta, retta che può assumere la forma di piano inclinato, e il moto acquista energia da se stesso, lungo il piano, e quando arrivi in fondo sei talmente carico che è difficile, molto difficile, tornare indietro, e con i pensieri e le percezioni attuali il decidere di mandare in culo tutto e tutti richiederebbe giusto un decimo di secondo.
Meglio un viaggio tondo, è più facile tornare sui propri passi.
Auro sta facendo uno dei viaggi che ho nel cassetto, e cioè la crociera dei fiordi norvegesi con il battello postale. La guardo da qua con invidia, e la seguo virtualmente su Twitter e Instagram.
Il ritorno dalla capitale mi permette sempre di passare una buona quantità di ore con la mia musica preferita. Ora l’autoradio trasmette un vecchio album live dei Tesla, “Five Man Acoustical Jam”. A parte le canzoni, ho trovato un’altra cosa che mi mette i brividi: l’esplosione del pubblico quando riconosce la canzone che sul palco si accingono a suonare. È un crescendo, che parte dagli urletti di incoraggiamento quando Frank Hannon si mette a cazzeggiare con le corde della chitarra, ed esplode quando sotto al palco si accorgono che inizia a suonare, ad esempio, “Cowboy modern day”. È una cosa che ti fa venire voglia di esserci anche tu, sotto quel palco.
Mi stava per scappare un pippone sulle grandi città e sul viverle quartiere per quartiere, poi mi son detto “Anche no, eh”. La Garbatella è un quartiere bellissimo, facci un giro. Se non ti bastano le due qui sopra, qua ci sono le altre foto.
Il ragazzino è in piedi, in alto sulla roccia. Si sistema il costume, un paio di boxer leggermente oversize, lo tira su da dietro e rinnova il nodo in vita. Poi, le mani sui fianchi e lo sguardo verso il mare aperto, attende il momento propizio, l’attimo perfetto in cui vento, acqua, cuore e cervello sono in sincronia. Eccolo. Flette le gambe, sposta il baricentro in avanti e le braccia indietro per controllare lo spostamento. Poi però qualcosa va storto. La perfezione del momento è interrotta da un rumore proveniente dalla sua destra, e da dietro la roccia appare una piccola imbarcazione. Immediatamente bacino e braccia invertono il loro movimento, e dopo qualche oscillazione il ragazzino si ferma e si siede. Pausa, cinque minuti buoni, poi daccapo, stessi movimenti, stesso istante da ricercare. Eccolo. La flessione è più profonda questa volta, i piedi si staccano dalla roccia e il corpo percorre in pochi secondi i cinque o sei metri che lo separano dall’acqua. Splash, molti spruzzi, ma il ragazzino non bada di certo alla forma. Anche questa volta è andata, e ora c’è un pieno di adrenalina da smaltire.
La reception è una isola di luce nel buio. Il camping si trova in alto rispetto al paese, ad un paio di chilometri, defilato, e l’illuminazione cittadina non disturba. I lampioni sono pochi, bassi, e creano aloni circoscritti; le finestre dei camper, chiuse per proteggere gli occupanti da sguardi indiscreti, non fanno filtrare quasi nulla. I tavolini di fronte al bar, essenziale, in linea con il resto del camping, sono pochi e tutti occupati. Una coppia di ragazzi olandesi consulta una carta della Liguria, due famiglie inglesi osservano i figli giocare al calciobalilla, un ragazzo scrive fitto fitto su un quaderno, sorseggiando una birra. C’è silenzio, c’è quiete. E c’è una strana sensazione in sottofondo: non fosse per i cartelli in italiano, questa reception potrebbe trovarsi in qualunque altra parte d’Europa.
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Ciao, curiosamente anche questo blog utilizza i cookie. Per me puoi andare avanti tranquillo, diversamente ciao.Magno tranquillo.La spiega.