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  • 4 (quattro)

    Quattro, come gli elementi.
    Quattro, come i fotografi del collettivo TerraProject.
    Quattro (per dodici) le fotografie presenti all’interno del libro 4, in fase di crowdfunding su Produzioni dal Basso.
    Uno di quattro gli elementi del collettivo Wu Ming legati al progetto, nella persona di WM2 (quattro diviso due), il quale ha portato in forma narrativa il percorso attraverso i quattro elementi mostrati dalle foto.

    Qui il post su Giap.

    Smettendola di dare i numeri, questa è stata una esperienza molto emozionante: le foto estremamente significative, i racconti elaborati da WM2 assolutamente azzeccati, la sua interpretazione che mette i brividi, un sottofondo musicale ben fatto, il tutto racchiuso in quella adorabile cornice rappresentata dalle Murate.

    Bellissimo.

  • By demons be driven [*]

    [*] Play

    Ti vedo spesso uscire di casa.
    La mattina presto, quando mi affaccio alla finestra della cucina per fumare una sigaretta.
    Oppure alla sera, quando apro la finestra del bagno di sopra per far uscire il vapore della doccia.
    Non che ti tenga d’occhio, è chiaro, solo evidentemente abbiamo gli orari sincronizzati.
    Apri la porta di casa, tiri su la zip del giubbotto leggero, porti la mano destra a quello che potrebbe essere un cronometro da polso, sulla sinistra, ti chiudi la porta alle spalle, una occhiata da una parte e poi dall’altra, e cominci a correre in direzione del ponte.
    Ti stimo un sacco, sai? La dedizione, la costanza, quelle cose lì. E nemmeno so chi sei, come ti chiami.
    Pensavo quasi di seguirti, un giorno, giusto per farmi una idea dei percorsi qui in zona, per non dico correre, ma almeno passeggiare un po’.
    Poi però niente, ho lasciato stare, e continuato a guardarti da una delle due finestre.
    L’altra sera, per caso, ti ho incrociato.
    Avevo parcheggiato l’auto in un posto diverso dal solito, vicino ai bidoni, ne approfittavo per raccogliere e buttare via qualche bottiglia vuota, quando tu sei passato, correndo.
    Non mi hai visto. Ma io sì.
    Avevi gli occhi iniettati di sangue, i muscoli del viso contratti in una smorfia di cattiveria.
    Ora, io non so perché corri, non so se lo fai per mantenerti in forma, o per scaricare i nervi.
    Voglio dirti però che se lo fai per sfuggire dai tuoi demoni, allora hai perso.
    I demoni ti hanno raggiunto, ce li hai dentro.

  • “Lancia il dado e vai a pag.46”

    Il risveglio non è dei migliori, l’anticipo sulla sveglia stavolta è di mezz’ora.
    La luce che entra dei listelli degli scuri, rimasti semiaperti, ha già sortito il suo effetto e di riprendere sonno proprio non se ne parla.

    “Se sei riuscito a riprendere sonno vai a pag.5, altrimenti prosegui”

    La luce lampeggiante del telefono richiama la mia attenzione.
    Una notifica.
    Scorro velocemente il messaggio, comprendo che ci sono delle cose tra le righe, ma ho il cervello affaticato e decido di risparmiarmi una fatica inutile e rimando l’eventuale risposta a più tardi.

    “Se hai capito e risposto subito vai a pag.9, se hai rimandato vai a pag.11”

    Sveglio la bambina e scendo a preparare la colazione.
    Latte tiepido e biscotti, succo d’arancia yogurt e biscotti.
    Il caffè lo bevo vicino alla finestra che da sul fiume, accompagnandolo ad una sigaretta.
    Il caffè è ottimo, me lo gusto con calma.
    Con troppa calma, adesso siamo al limite del ritardo, corriamo verso la scuola, e incrocio le dita sperando di averle dato tutto.

    “Se ti sei ricordato tutto vai a pag.20, altrimenti prosegui”

    In coda alla cassa del bar.
    Il commesso chiacchiera con una tipa, tre persone avanti a me.
    Il tizio davanti a me indossa una polo verde smorto, il colletto alzato, la marca bene in vista, blu elettrico su sfondo bianco.
    Le due tizie dietro di me parlano di una cosa che c’era in TV ieri sera, un tizio che “Mioddio è bellissimo, favoloso, io lo amo tantissimo!” “Guarda, davvero, è un pazzo, mi ha catturata da subito!”, con un sacco di gridolini.

    “Se ti sei fermato al solito bar per prendere le sigarette vai a pag.29, altrimenti vai a pag.35”

    Salgo in auto e sgommo verso l’ufficio.
    Sento, fortissimo, l’odore del sangue.
    Mi guardo le mani, mi tocco il naso, le labbra, la bocca.
    Niente.
    Ma l’odore metallico c’è ancora, intenso, quasi da farmi girare la testa.
    Starò forse diventando un vampiro? Spero di no, ché proprio non mi ci vedo, bianchiccio e slavato.
    Piuttosto, dovessi mai trasformarmi in un mostro, preferirei diventare un lupo mannaro.
    È più figo, più grosso, più pelo.
    Adesso lancio un dado e vado a pag.46, magari trovo la formula per diventare lupo mannaro.

    “Lancia il dado e vai a pag.46”

  • È che quando il gioco si fa lungo, anche i duri si stancano.

    “Cosa vuoi da me? Cosa puoi darmi?”

    “Cosa vuoi prendere?”, ti risponderei. Perché io non so cosa saprei staccare da me per darlo via, non so cosa vorrei incartare con filo prezioso e nastro resistente per regalarlo a te, non so cosa strapperei dalla nuda carne scegliendo tra altre cicatrici, altre ferite, per gettare via brandelli insanguinati di me.

    Non ti chiederei di staccare nulla, ché non sei una bambola snodabile, e nemmeno un animale, quindi neanche tagli scelti. Non mi intendo di macelleria, tanto meno di giocattoli, e allora ti prenderei intera, così, in blocco. Ché poi chi me lo assicura che quella parte lì – la vedi, lì, quella che adesso fa quell’ombra curiosa? – poi, presa come pezzo, continui ad essere così bella?

    Ma io non so se sono bella perché mi guardi con questi occhi che non mi lasciano un istante – e lo so che non mi lasciano nemmeno mentre dormo, nemmeno mentre dormi – o se sarei bella lo stesso anche se non mi guardassi più o se potrei essere più bella ancora se sapessi guardarmi da sola, senza dover passare per mille occhi altrui, fra cui i tuoi.

    Nemmeno io so se sei bella, ai tuoi occhi, o agli occhi di tutti quelli che hanno la fortuna di vederti. Egoisticamente, nemmeno mi importa. Io so che sei bella per me. Ti guardo, moltissimo, e ascolto la chimica del mio corpo che ti assimila, sento la tua immagine capovolta sulla retina che viene scomposta in segnali elettrici, e ogni neurone coinvolto nel processo lo sento scuotersi percorso da un brivido in più. Voglio farci un regalo, prima o poi, mi faccio impiantare un qualcosa, lì, sul nervo ottico, così quando ti chiederai “Ma sarò davvero bella?” potrai collegartici e dire “Cristo, sì”.

    E anche quando avessi capito come mi vedono gli altri, e mi fossi convinta di ciò che appaio, come potrò imparare a capire quello che c’è dentro? come potrei spiegarlo a te che mi guardi, se non spaccandomi in due?

    No, ti sbagli, il mio sguardo non spacca, non è distruttivo. Ti attraversa, certo, ti legge le parole scritte in piccolo nei capillari, tra le righe dei fasci muscolari, si accorda con le tue contrazioni involontarie. Ma non spacca. È piuttosto come una corda di violino, legata ad un peso, e tu sei il cubetto di ghiaccio al quale è appoggiata, e la pressione fa tutto il resto, la corda man mano ti attraversa, ma tu ne esci, comunque, ricomposta.

    E tu? in tutto questo, tu?

    È una accusa? O ce la leggo io, ché ho una coda di paglia ormai pari ad una scopa di saggina? io sono qui, con il mio essere sbagliato sul lungo termine, con l’anima e il corpo nel noi, consapevole dei rischi che corro ma impossibilitato ad agire diversamente. Sono biasimabile, per questa cosa?

    Non lo sei, non è una accusa, o un rimprovero: le mie parole che ti sei visto arrivare addosso come coltelli affilati che si conficcano ad un millimetro dalla tua pelle a disegnare il contorno di te, se le guardi di profilo e non di petto vedrai che sono superfici riflettenti che ti offrivo perché ti potessi guardare, perché per una volta tutto il tuo cuore, il tuo sangue, il tuo sguardo sincero e trasparente, la forza incrollabile del tuo abbraccio fossero rivolti a te stesso per comprendere tu chi sei. Non cosa vuoi, ma chi è questa persona che vuole, che ha desideri e ardori e passioni.

    Va bene, uso le lame senza temerne il filo, e mi osservo nel profilo. Vedo tanti me, noto tratti comuni, ma ognuno dei me riflessi presenta delle differenze, in funzione della prospettiva offertami dall’inclinazione del coltello. Ne deduco che io sono in funzione di chi mi osserva, di chi è, di come lo fa? È possibile che abbia un nucleo base, il mio vero io, una sorta di DNA con all’interno le caratteristiche principali, e che questo DNA si vada poi a combinare con quello della persona che incontro, mutandomi di volta in volta?

    È così. E la persona che incontri muterà al contatto con te, muterà per le tue assenze: si modellerà e ti modellerà sugli spazi vuoti e pieni, ma allo stesso tempo ti opporrà spigoli e muri. Non è colpa di nessuno se non ci si incastra, nessuno ha un merito speciale, non vi è spazio per gli “avrei potuto”, non c’è perdono per gli “avrei voluto”, non c’è rimedio agli “avrei dovuto”.

    (Questo post è stato scritto a quattro mani, alcuni mesi fa, con Batchiara.)

  • Insofferenza

    Percepisco che un po’ di cose hanno ricominciato a girare per il verso giusto.
    Quindi, insomma, diciamo che va bene.
    Continuo a fare cose impulsivamente, senza pensarci troppo, e sento quel pizzicorino nello stomaco, il mio personale “chissà come andrà”. Ma non posso fare diversamente, incrocio le dita e va bene così.
    Ho idee buone per almeno tre tatuaggi.
    Ma c’è un fondo di insofferenza che rompe le uova nel paniere.
    Mi sono rotto il cazzo di sistemare borse e scatole piene di roba vecchia.
    Butterei via tutto e ricomprerei quello che in realtà mi sarebbe servito.
    Mi sono rotto il cazzo di chi dice che a fine agosto l’estate è finita.
    L’estate finisce quando lo decidi tu, non è una questione di date o di clima.

  • Agosto è per non pensarci troppo

    Agosto è per non pensarci troppo
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    Fa caldo.
    Mi sudano i pensieri, un porcone per ogni goccia che scende.
    Mi sudano i pensieri, e si mischiano l’uno all’altro alla base del collo impregnando la t-shirt.
    Allora non ci penso, tanto non posso più distinguerli.
    Metto su un po’ di musica, una serie di canzoni che hanno poco a che fare l’una con l’altra, ma che riescono tutte a tenermi la testa sgombra.
    Fa caldo, sudo, un porcone per ogni goccia che scende, ma ora sono solo gocce.

    [Play]

  • “Quelle cose sono noi, quelle cose siamo noi”

    Ora che ci penso, è stato proprio girando questi milleduecento metri quadri che vanno a riempirsi di ogni cosa che ho capito meglio perché posso stare minuti eterni a guardare un cartello arrugginito in un parcheggio, una vecchia porta di legno riverniciata di fresco, la silhouette dei tetti fuori dalla stazione di Rogoredo, e perché i ritratti delle persone mi piacciono ma non mi interessano – perché se guardi una persona vedi solo quella, se vedi una cosa vedi anche una persona.

    (Come spesso accade, Sir Squonk mi da involontariamente il la, e io non posso fare altro che andarci dietro.)

    Dunque, nella casa vecchia, avevo questo piatto piano – ne parlai qui – proveniente da un servizio passatomi da mia mamma.
    Questo piatto si è crepato la prima sera che ho cenato in quella casa, appena appoggiato sul tavolo. Inspiegabilmente crepato, ché l’ho appoggiato come son solito appoggiare i piatti sulla tavola, senza troppi urti.

    Fatto sta che lui ha deciso di creparsi, proprio quella sera.
    E non l’ho buttato, ché in fin dei conti era solo una crepa, sembrava tenere botta.
    Ed è durato fino a stasera, con la sua bella crepa, finché non l’ho preso e gli ho dato un colpo secco sul tavolo.

    Perché, come dice lui, le cose ci rappresentano. E quello mi ha rappresentato per un sacco di tempo, ché anche io ero in qualche mondo “crepato”, mi sentivo così.

    Oggi, leggendo il post, mi è venuto in mente. Non tanto come oggetto, ché ci ho mangiato dentro praticamente sempre, quello era il MIO piatto, ma piuttosto come significato. E considerato che non mi sento più rotto, crepato, ha smesso di rappresentarmi, è ritornato ad essere un piatto e basta.

    E bon, l’ho rotto e buttato.

  • I racconti della casa nuova – La prima notte dell’ottenne

    Passare un’ora e mezzo seduto a terra, con la schiena appoggiata al muro, al buio, ascoltando i movimenti del suo sonno agitato dal caldo, le parole smozzicate che sbucano fuori dai suoi sogni: CHECK.
    Ora spero tocchi a me, ma ho dei seri dubbi.

  • I racconti della casa nuova – Prodromi di trasferimento

    Bon, direi che quasi ci siamo.
    La camera grande è a posto, e ora l’armadio e la cassettiera interna hanno le maniglie.
    La camera piccola, c’è da togliere il cellophane dal materasso e poi si può fare il letto.
    La lavatrice è funzionante senza perdite.
    La cucina idem.
    Il frigo fa il suo lavoro, per ora solo con qualche bottiglia d’acqua dentro.
    Il bagno di sopra è senza specchio, conto di montarlo domani sera.
    C’è la TV, ma manca l’antenna sul tetto, mannaggiaacristo.
    I faretti sono collegati e funzionanti, ma da fissare al controsoffitto.
    Gli altri punti-luce mancano.
    Il bagno di sotto ha solo il water, il lavandino non l’ho ancora comprato.
    Ho sistemato della roba per la cucina, ne ho scartata altra, ché proprio no, non la voglio.
    Le scatole con i panni invernali e i sacchi con le trapunte e il piumone stanno già al loro posto, nel contenitore sotto al letto.
    Avanzano un paio di scatole, quella delle aspettative e quella con i sogni messi in pausa.
    Non so dove sistemarle, le sposto ma me le ritrovo sempre in mezzo ai piedi.