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  • Stato di deprivazione sensoriale

    Comincia tutto con il rumore della risacca, steso sul lettino ad un paio di metri dalla riva.
    Il rumore, ritmico, accompagna le percussioni, lente, del battito del cuore.
    Il brusio delle voci di chi resta a pranzo, sotto l’ombrellone, è basso e distante.
    La pelle è coperta da uno strato umido, le gocce di sudore scendono dal torace verso la schiena, andando a morire sul telo.
    È l’ora del bagno, uno dei tanti, senza soluzione di continuità.
    Mi immergo piano piano nell’acqua, assaporandone la freschezza che mi risale lungo il corpo. Caviglie, polpacci, cosce, i testicoli che si restringono, la schiena che manda brividi.
    L’acqua ora mi arriva al collo.
    Alzo le gambe, sposto indietro la testa, allargo le braccia a croce e lascio che l’acqua mi ricopra fin dove desidera.
    Le orecchie sono immerse, tutto mi arriva attutito, distante.
    Rallento il respiro, mi concentro sul galleggiamento, attendo.
    Ed eccolo.
    È una specie di tonfo, sordo, come se al mio corpo fossero attaccati dei pesi e fossi arrivato, planando lentamente, sul fondo di una piscina.
    La percezione del tempo e dello spazio viene meno, e se proprio mi interessa, posso intuire come sono orientato sentendo da che parte vengo colpito dalle onde.
    È uno stato di equilibrio perfetto, fisico e mentale.
    Vorrei che non finisse mai.

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  • Carne e sangue

    Carne, sangue.
    Siamo dei pasti deambulanti, protetti da un inefficace strato di pelle.
    In balia di chi arriva, morde, porta via brani di tessuto, lasciando sanguinanti ossa esposte, rigate dai denti.

  • Promemoria

    Se sei uno del posto, allora ti sarà di sicuro capitato di incrociare Garbino a passeggio con una pianta in mano, nelle giornate calde e poco ventose. Se ti capita di vederlo, con la pianta in mano, in direzione della vecchia torre, seguilo per un po’. Sta andando verso il solito bar, a leggere i giornali, a bere un caffè, una aranciata amara, e poi un’altra ancora – sempre in questo ordine. Se hai tenuto botta abbastanza, e gli sei vicino il giusto, ad un certo punto sentirai il bip-bip-bip di una sveglia, lo vedrai controllare il suo vecchio Casio a cristalli liquidi, e si alzerà per chiedere un bicchiere d’acqua al barista. Poi comincerà a versarla, pian piano, come fossero piccoli sorsi, saggiando la terra volta per volta. Se gli sei molto vicino, ascolta con attenzione, “Hai visto, mamma, non mi dimentico, acqua una volta al giorno, la terra ben umida, aria e tanta luce, proprio come avevi detto tu”.

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  • Garbino

    Garbino è il soprannome di questo tizio, un po’ matto, e lo chiamano così perché ha la tendenza a sbroccare. Garbino lo ha scoperto non molto tempo fa, di essere matto, perché tutti gli dicevano di sì, è lui “Mannò, non sono matto!” e poi ha letto da qualche parte che i matti non sanno di esserlo, e allora sì, ha capito che è matto. Parla spesso da solo, ha questo vecchio marsupio al quale è affezionato e non vuole buttare, nonostante stia assieme con lo scotch, e che secondo lui lo fa figo. Quando tira il garbino, la gente gli dice “Va la, Garbino, è meglio se stai al riparo, ché altrimenti diventi ancora più matto di quello che non sei già”, e giù a ridere. Lui allora se ne va, brontolando tra sé, scocciato, perché gli altri non capiscono che a lui piace, quel vento caldo, gli piace sentire i granelli di sabbia che gli pizzicano la pelle, gli piace quel vento perché è l’unica cosa che riesce a spazzargli via tutti i pensieri dalla testa.

  • I racconti della casa nuova – Un breve sopralluogo

    L’acqua nel fiume non è molta, e scorre lenta verso la foce. In direzione opposta, una serie di onde svela un pesce che risale la corrente. Le canne frusciano come un mormorio, scosse appena dalla leggera brezza. Un turbinio di rondini percorre la superficie dell’acqua a caccia di insetti, e le più avventate – o distratte – mi volano vicino, affacciato al piccolo balcone.
    Sento di volerle già bene, alla casa nuova.

  • Mossismo involontario

    Una volta facevo il fotografo, dice l’uomo. Fino a quando non è iniziata la malattia e sa, le foto mosse non piacciono a tutti; così vado nei posti che mi piacciono e mi fermo a guardare, perché sta tutto lì sa, nel guardare le cose e vederci dentro. Non posso fare altro, guardo.

    Il periodo precedente l’ho estrapolato da questo post scritto ieri da Squonk, un post da un lato molto bello, ma che mi ha dato anche da pensare. L’idea di finire come l’uomo del racconto mi spaventa molto. È che le braccia tremano abbastanza, a volte, il dottore dice di non preoccuparmi, che è una questione di nervi, lo stress, l’ansia, però ecco, ci penso, e tremo un po’ di più.

  • Thank you

    Stefania.
    Marco, la Cate, Simone e Bicio, Luca, Simone e l’Elena.
    Elena, Francesca, Vincenzo, Emanuela, Federica.
    Michela e Matteo, Elisa.
    Le Mondine.
    Corrado.
    Benedetta & family.

    Spero di non aver lasciato fuori nessuno. Grazie per il bellissimo Natale. REsistiamo.

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  • “E tu? in tutto questo, tu?”

    Capita che ti trovi a scrivere una cosa a quattro mani con una amica, una cosa tu ed una lei, e via, ognuno seguendo il flusso dei propri pensieri. L’ultima battuta è stata tua, sei soddisfatto, le metafore che hai usato rendono bene, e ora tocca a lei. Lavori, fai altro, non ci pensi. Poi un (1) nel tab di GMail, il primo in alto a sinistra nel browser, quello che è praticamente sempre aperto, attira la tua attenzione.
    “E tu? in tutto questo, tu?”
    Leggo quella singola frase due, cinque, dieci volte. Altrettante controllo il mittente.
    Lei, l’amica, non lo sa – ora, se legge il post, sì – ma è una gran mazzata, al sapore amaro di déjà vu. Estrapolata dal gioco di scrittura e sbattuta nella vita reale, è un invito ad un bilancio, cosa che – da qui il déjà vu – sto facendo da un po’. E tirate le somme, il numeretto tende al negativo.
    Io, in tutto questo, non vado bene.
    Sono vuoto.
    Arrabbiato.
    Cerco lo scontro, fortunatamente non con tutti.
    Noiosamente cinico.
    Un esempio? Le bombe di Boston. Dopo l’iniziale dispiacere, semplicemente non me ne frega un cazzo. Suona malissimo, ne sono consapevole, ma è così.
    Non mi riconosco e mi faccio paura.
    “E tu? in tutto questo, tu?”
    Io? Non lo so, fatico a capire chi sono.

  • In dreams

    Apro gli occhi con la sgradevole sensazione di essere impossibilitato a muovermi.
    Provo, e le gambe, le braccia e la testa sono come bloccate su una superficie di gomma semirigida. Mani e piedi riesco a muoverli, ma questo non mi consola, anzi.
    Qualcosa mi ostruisce la bocca, consentendomi comunque di respirare.
    Chino a fatica la testa verso il basso, e mi intuisco steso su un lettino, ancorato da fasce, coperto da un lenzuolo dalla vita in giù; sento arrivare la prima, grossa, ondata di panico.
    Percepisco e intravedo un ambiente asettico, freddo come le luci al neon che lo illuminano, macchinari, tubi, LED che si accendono e spengono, carrelli con attrezzi ben appoggiati in ordine: sono in una specie di sala operatoria.
    Il panico è oramai una piena di fiume; mi dimeno, inutilmente, cerco di urlare, ma escono solo flebili mugolii. Non proprio inutilmente, perché una figura entra da sinistra nel mio spazio visivo.
    Non è riconoscibile, ha il capo coperto da un qualcosa di tessuto, una grossa maschera con lenti opache davanti a occhi e naso, una mascherina verde per la bocca, e quello che può essere un camice che parte dal collo e arriva dove io non riesco a vedere.
    Si avvicina lentamente, e mentre mi sforzo di capire chi è, una luce abbagliante si accende sopra il mio volto, vanificando ogni mio sforzo. L’unico dettaglio nuovo che percepisco è lo strumento di metallo, lungo e scintillante, che tiene in mano.
    Perdo il controllo e urlo, senza riuscire ad emettere un suono.
    La figura si avvicina, mi appoggia la mano avvolta nel guanto di lattice sul torace, e noto il tessuto della mascherina deformarsi a causa del sorriso spuntato sulla bocca che non vedo, come a volermi tranquillizzare. Come un sussurro impercettibile, “Non ti farò male”. E alza lo strumento che ha in mano.
    Non è un bisturi, ma la lama c’è tutta. La vedo scintillare, una lama senza fascino, dritta, fatta con uno scopo unico: tagliare.
    E comincia ad usarla, senza preavviso.
    Io urlo di nuovo, un urlo lungo e silenzioso, in attesa di sentire arrivare l’ondata di dolore.
    Quando la gola brucia, smetto, ché il dolore non è arrivato, nonostante la figura stia proseguendo con il suo lavoro di incisione.
    Sento la lama scendere nella carne, sempre più giù, la sento curvare per percorrere lo spazio vuoto tra due costole, sento il sangue scorrere lungo il fianco, la sento emergere dal taglio, sento il rumore di lacerazione quando le mani allargano il taglio, sento la pressione sulle costole, sento il crack delle stesse quando la pressione è diventata sufficiente, ma no, come aveva detto la figura che si sta accanendo su di me, non sento dolore.
    Il lavoro procede febbrile, tra crack e incisioni, io e la figura oramai verniciati del mio rosso cupo, e finalmente termina, con il rumore della lama appoggiata a qualche superficie metallica.
    Io, che avevo distolto lo sguardo, spettatore/protagonista insensibile di quello scempio, riabbasso gli occhi, e vedo la figura con un cuore, il mio cuore, ancora sprizzante sangue, in mano.
    Il sorriso deforma nuovamente la mascherina, e un nuovo sussurro “Questo lo tengo io, a te non serve”.
    Poi solleva la maschera opaca, e riesco così a vedere gli occhi della figura, e la riconosco immediatamente. Con dei mugugni le faccio capire che voglio parlare, e sento la bocca finalmente libera.
    “Cretina che non sei altro, brutta testa di cazzo, è sempre stato tuo, c’era bisogno di fare tutto questo casino?”

    Poi mi sono svegliato.
    E magari uno si chiede per quale motivo alle sette della mattina abbia già voglia di dare fuoco a chiunque.