Tag: barabba

  • Thank you

    Stefania.
    Marco, la Cate, Simone e Bicio, Luca, Simone e l’Elena.
    Elena, Francesca, Vincenzo, Emanuela, Federica.
    Michela e Matteo, Elisa.
    Le Mondine.
    Corrado.
    Benedetta & family.

    Spero di non aver lasciato fuori nessuno. Grazie per il bellissimo Natale. REsistiamo.

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  • La selezione

    Ecco, l’ho vista.
    No, vabbè, forse è stato un riflesso, niente.
    Sì, certo, come no, riflesso di che cosa, ché in questa stradina buia di campagna non c’è anima viva a parte me.
    Allora è vero, l’ho vista, la lucetta verde c’era davvero, non mi sono sbagliato.
    Ricapitolando.
    Era lì, sul cruscotto, sul display dell’autoradio, poi si è spostata a sinistra, poco oltre il volante, ed ha cominciato a scendere, nello spazio davanti al contachilometri, poi sul volante, poi ce l’avevo sulla coscia destra, poi sul petto, poi non so, ché la strada era buia e stretta e non volevo infilarmi in un fosso.
    Ok, la storia è verosimile, combacia più o meno con quelle descritte dagli altri del gruppo, al bar.
    Mi hanno mirato, proprio a me, lo sfigato del gruppo.
    Ora ho qualcosa da raccontare anche io.
    Figo.

    Arrivano, li sento.
    O meglio, le cose che stanno succedendo le ho già sentite raccontare: l’auto che si spegne, un ronzio basso, i peli delle braccia che si rizzano come quando d’inverno metto il pigiama sintetico.
    Arrivano, anche per me.
    Figo.

    Mi ha ritrovato un contadino, in un campo verso Cotignola.
    La macchina invece era poco fuori Lugo, dove si era fermata.
    Sono ricomparso circa due giorni dopo, come gli altri ragazzi del bar.
    Non ricordo nulla, come gli altri ragazzi del bar.
    Nudo, come gli altri ragazzi del bar.
    Ma senza alcun segno.
    Luca, il primo, si è ritrovato dei segni sulla schiena, sopra la scapola destra, dicono tipo delle incisioni con un laser, e una cosa di metallo, attaccata alla scapola.
    Mario, il secondo, la stessa cosa, solo con meno segni.
    Marco e Matteo, i gemelli, li hanno presi assieme, stessi segni di Luca, ma qualcosa inserito nel femore.
    Io, niente.
    Nessun segno, nessuno coso attaccato da qualche parte.
    Niente.
    Mi schifano anche gli alieni.
    E adesso, con che coraggio ci torno, al bar?

    Quei matti di Barabba l’hanno fatto di nuovo, un’altra chiamata a raccolta pubblica, stavolta legata alla fantascienza. Non potevo mica tirarmi indietro, no? Se clicchi sulla scritta in rosso puoi scaricare l’opera completa con tutti gli altri contributi. E no, non è fantascienza, la scarichi davvero a gratis. Buona lettura.

  • Poi uno dice che s’emoziona

    Mettici: un teatro, di quelli veri, con palco e tutto il resto, l’autore tra il pubblico, e la 7enne che t’ascolta. Ciao cuore ciao.

    Bellezze
    [Schegge a Sogliano]

  • Cicatrici – Post pulp

    Cicatrici
    [Questo spettacolo di copertina l’ha fatta Tostoini]

    Le cicatrici rientrano in quel particolare tipo di sfighe che poi puoi raccontarle. Possono essere evidenti o nascoste, interne o esterne, comiche o drammatiche, ben chiuse o dolenti; il punto è che comunque ci sono, che bisogna conviverci. La mia l’ho scritta e l’ho inviata a lui, che l’ha presa e l’ha messa assieme alle altre e ne ha tirato fuori un ebook, prendibile aggratis da qui. Accattatevillo.

    PS: una riflessione postuma. Lo scriverne a proposito mi è servito per metabolizzarla. Mi sembra interessante.

  • Ciao mamma, sono su IuTub

    Lei ha fatto il video, lui ha scritto queste belle parole, io ci ho messo la grossa presenza scenica. Tutto, sempre grazie a questo.

  • Con gli occhi di una bambina

    Domani con il babbo e la mamma andiamo a trovare il nonno che abita in montagna. Vive in casa da solo senza la nonna e lei non l’ho mai conosciuta perché è morta prima che io nascessi e le cose che so me le ha raccontate la mamma, perché la nonna è la sua mamma. La mamma mi ha detto di fare la brava perché il nonno è vecchio e non sta molto bene e ho detto “Ok te lo prometto: faccio la brava”. Mi piace molto andare dal nonno in montagna: a giocare nella legnaia, a cercare gli insetti nell’orto, a inseguire le galline, anche se lui mi sgrida e mi dice che dopo non fanno più le uova. Però quando mi sgrida ride e non credo che dica davvero. Certe volte mi porta con lui a funghi nel bosco, però nei sentieri facili, che io sono solo una bambina. Non vedo l’ora che sia domani.

    Oggi siamo andati dal nonno. Siamo partiti presto perché c’è da fare un po’ di strada per arrivare a casa sua e io ho fatto qualche pisolino in macchina. Quando mi svegliavo sentivo il babbo e la mamma che parlavano piano per non svegliarmi e non capivo cosa dicevano, quindi tornavo a dormire. Però la mamma mi sembrava triste, forse aveva pianto. Poi ad un certo punto il babbo mi ha chiamato, mi ha detto “Dai che siamo arrivati” e allora mi sono girata e ho riconosciuto il muro con i sassi grossi, gli scuroni verdi e la tenda con le striscioline di plastica colorata della porta di entrata. Non ho fatto in tempo a scendere dalla macchina che il nonno è uscito di casa per venirci a salutare. L’ho guardato e non mi sembrava più vecchio del solito. Ci siamo baciati e abbracciati tutti, poi la mamma e il babbo sono andati a salutare anche la zia, nella casa li vicino, io sono rimasta con il nonno perché tanto dopo la zia veniva ad aiutarci a cucinare e si fermava a mangiare. Il nonno mi ha chiesto come stavo, gli ho detto “Bene, sai che sono in prima elementare?” e lui era contento, ha sorriso molto, e intanto gli ho raccontato cosa facciamo con le maestre e i miei amici di scuola. Lui mi ascoltava attento e ad un certo punto gli sono diventati gli occhi lucidi allora gli ho chiesto “Nonno perché piangi?” e lui mi ha detto che pensava a quando era po’ più di un ragazzino, al suo fratellino che doveva cominciare ad andare a scuola. Io non lo sapevo che aveva un fratello, sono rimasta a bocca aperta e gli ho chiesto dov’era, e allora lui si è fermato ci siamo seduti su un tronco di fianco al giardino e mi ha detto “Non c’è più da tanto tempo. Adesso che sei un po’ più grande ti racconto una storia”. E così ha cominciato a parlarmi di quando era un ragazzo, di suo fratello, dei giochi che facevano, del suo babbo e della sua mamma e sono stati dei bei racconti, non capivo tutte le cose che diceva ma mi sono sembrati belli. Poi è diventato triste, molto più della della mamma in macchina e infatti piangeva. Allora stavo per chiedergli ancora cosa aveva fatto ma deve averlo capito perché con una mano a fatto il segno di stare zitta e poi ha ricominciato a raccontare. Mi ha detto che c’era la guerra e i Tedeschi e io gli ho chiesto chi erano, perché era un nome che non avevo mai sentito e mi ha risposto che erano persone cattive che arrivavano con i fucili e ammazzavano tutti e poi bruciavano le case e che sono stati loro a uccidere il suo fratellino e la sua mamma. Allora gli ho chiesto come mai lui era ancora vivo e mi ha detto che lui non c’era a casa quel giorno, era nei boschi assieme agli altri Partigiani e stavo per interromperlo perché non conoscevo bene nemmeno quella parola, cioè l’avevo già sentita ma non mi ricordavo cosa voleva dire, ma il nonno se ne deve essere accorto perché me l’ha spiegato subito. Mi ha detto che si chiamavano così quelle persone che sceglievano di combattere contro i tedeschi perché le cattiverie che stavano facendo erano insopportabili. Allora gli ho chiesto se li avevano ammazzati anche loro i tedeschi e per un attimo è diventato più serio e si è bloccato, poi mi ha detto che si, anche lui aveva ammazzato dei tedeschi – gli volevo dire che quindi era stato cattivo anche lui, però ho pensato che forse ci rimaneva male e allora ho lasciato stare – lui ha continuato a parlare ma era come se non mi vedesse o non ci fossi e ho capito poco, poi è tornato a guardarmi e mi ha detto che dopo pranzo mi portava a fare un giro.
    Il pranzo neanche me lo ricordo, pensavo solo al giretto dopo.
    Siamo partiti verso il bosco noi due e la mamma, piano perché il nonno era stanco. Per un po’ il sentiero lo riconoscevo, era quello facile che facevamo di solito, poi però abbiamo girato dietro ad una roccia molto grande e da li in poi era tutto nuovo. Secondo me abbiamo camminato molto perché sentivo male ai piedi, poi ad un certo punto il nonno si è fermato e mi ha detto di guardare là verso quegli alberi. “Vedi?” No, io non vedevo niente a parte le piante e l’erba, e allora mi ha preso per mano e mi ha fatto vedere cosa vedeva lui. C’erano delle specie di buchi per terra, alcuni lunghi e altri più grossi, e qualcuno anche nelle rocce che stavano sopra, come quelle caverne che si vedono nei film, solo più piccole. Il nonno mi ha spiegato che per molti mesi lui e gli altri partigiani avevano vissuto nascosti in quel posto, nella terra, nei buchi, al freddo, per combattere i tedeschi. “Ma come facevate a mangiare?” “C’erano delle brave persone che con il buio facevano avanti e indietro dal paese per portarci il cibo” “Ma non avevano paura a girare nel bosco di notte?” “No, erano coraggiose e ci volevano aiutare, quindi gli passava la paura” “Ah”
    Ogni tanto mi giravo indietro a guardare la mamma e vedevo che era emozionata perché aveva gli occhi molto lucidi. Poi il giretto è finito, perché era tardi e dovevamo tornare a casa in città. Quando siamo arrivati alla casa del nonno ero contenta perché ho raccontato al babbo le cose che avevo imparato e lui ha sorriso. Poi il nonno mi ha dato un regalo, una scatola pesante piena di fogli vecchi scritti in piccolo, in corsivo, non ho capito cosa perché a scuola abbiamo fatto solo lo stampatello e il corsivo ancora no. La scatola l’ha presa la mamma anche se il regalo era il mio e il nonno mi ha detto che magari adesso non capivo ma che quando diventavo più grande dovevo leggere quei fogli così mi ricordavo di lui, e gli ho detto “Grazie, che bello”. Dopo ci siamo salutati e siamo ripartiti, il viaggio verso casa non me lo ricordo perché mi sono addormentata subito.

    Oggi dopo la scuola con la mamma abbiamo sistemato i fogli del nonno in una scatola più grande con scritto sopra il mio nome, e non vedo l’ora di imparare il corsivo per poterli leggere. Grazie nonno, ti voglio bene.

    [Questo è il mio piccolo contributo alle Schegge di Liberazione 2011. Lo trovi negli outtakes, assieme ad altri contributi, in PDF o EPUB, qui. Perché gli outtakes, dici? Perché di contributi ne sono arrivati un fottìo, e non c’era spazio per tutti nelle Schegge cartacee. Tu che “Ah l’odore della carta. Ah, il peso del libro nel tascapane. Ah, vuoi mettere?”, sarai ben contento?]

  • Sfortuna

    Sfortuna. Iella. Iattura. Sfiga.
    Ma anche disavventura, infortunio, sorte avversa.
    Oppure sacrificio, perdita, scapito, danno.
    Aggiungendo al danno la beffa, quindi non basta essere sfortunati, bisogna anche definire bene il proprio tipo di sfortuna. La mia personale definizione di sfortuna è “cosa negativa che accade, prevista oppure no”. In trentacinque anni di vita ne ho provate diverse, di sfortune. Come buona parte della gente, del resto. Mi ricordo un periodo, alle superiori, che definii piuttosto sfigato perché nel giro di tre giorni feci quattro incidenti con lo scooter, fortunatamente non gravi per me, un po’ di più per il mezzo. Sempre alle superiori ho provato un altro tipo di sfortuna, non riflessiva questa volta, nel senso che non mi sentivo sfigato, ma gli altri mi additavano come tale: vuoi la passione per il computer, vuoi l’abbigliamento un po’ troppo casuale, i “guarda quello, che sfigato” si sprecavano. Poi, crescendo, ho come l’impressione che il mio metro di giudizio della sfortuna sia variato, spostandosi più verso la sfiga, che è si una dis-fortuna, ma di livello più basso, come “Uff, ma cavolo, non me ne va mai dritta una! Vabbè…”, una cosa poco più alta di un fastidio, ecco. Le sfortune di livello più alto, invece, crescendo sono diventate dolori, drammi, danni; e con queste non c’è “Vabbè” che tenga, queste arrivano, fanno il loro lavoro, e se ne vanno lasciandoti dei segni grossi così. Trattandosi abbastanza spesso di perdite di cose e/o persone, diventa interessante l’etimologia della parola iattura, cioè l’azione che si compiva – compie? – sulle barche all’arrivo di una tempesta, il liberarsi del carico per evitare il naufragio: in entrambi i casi ci sono delle perdite, in entrambi casi c’è il dispiacere per queste, ma sulla barca c’è l’obiettivo di salvarsi, mentre nella vita reale no, si perde e basta. L’educazione alla sfortuna parte da quando siamo piccoli, con i fumetti e i cartoni animati, e i personaggi non baciati dalla dea bendata ci vengono mostrati come simpatici: penso ad esempio a Paperino o al Wile E. Coyote; forse è un modo per indorarci la pillola, più o meno voluto, fatto sta che si impara che non tutto può andare come si desidera che vada, e che questo non deve farci sentire personaggi di serie B. Poi si cresce, e bene o male tutti si viene a conoscenza di Murphy, delle sue implacabili leggi e dell’altissima probabilità che le cose possano girare dal verso sbagliato, rendendo il discorso un poco più serio. E i proverbi e le canzoni e i film, una sorta di memento mori senza soluzione di continuità, un enorme “Guarda che ti avevo avvisato, eh”; ma nonostante tutti questi alert spesso ci si dimentica che la sfortuna ha 10/10 da entrambi gli occhi, e quando ci si sbatte contro si rimane stupiti, e a volte, purtroppo, si sanguina anche un po’. Che sfiga.

    [Il presente è stato letto qui, e potete trovarlo anche qui in versione PDF/ePub/mobi, assieme ad altri bellissimi scritti e disegni]

  • Cronaca [a posteriori] di una sorte annunciata

    Nasi rossi #2
    La sfortuna, metti mai che il parlane e lo scriverne non serva a scongiurarla… Serata bellissima, emozioni, risate, abbracci, chiacchiere, e un pizzico di sfiga per stare in tema. Qui c’è il photoset completo, qui gli ebook [plurale, si, due, un sacco di scritti, fichissimo], e qui anche un inedito.

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