Tag: mare

  • Stato di deprivazione sensoriale

    Comincia tutto con il rumore della risacca, steso sul lettino ad un paio di metri dalla riva.
    Il rumore, ritmico, accompagna le percussioni, lente, del battito del cuore.
    Il brusio delle voci di chi resta a pranzo, sotto l’ombrellone, è basso e distante.
    La pelle è coperta da uno strato umido, le gocce di sudore scendono dal torace verso la schiena, andando a morire sul telo.
    È l’ora del bagno, uno dei tanti, senza soluzione di continuità.
    Mi immergo piano piano nell’acqua, assaporandone la freschezza che mi risale lungo il corpo. Caviglie, polpacci, cosce, i testicoli che si restringono, la schiena che manda brividi.
    L’acqua ora mi arriva al collo.
    Alzo le gambe, sposto indietro la testa, allargo le braccia a croce e lascio che l’acqua mi ricopra fin dove desidera.
    Le orecchie sono immerse, tutto mi arriva attutito, distante.
    Rallento il respiro, mi concentro sul galleggiamento, attendo.
    Ed eccolo.
    È una specie di tonfo, sordo, come se al mio corpo fossero attaccati dei pesi e fossi arrivato, planando lentamente, sul fondo di una piscina.
    La percezione del tempo e dello spazio viene meno, e se proprio mi interessa, posso intuire come sono orientato sentendo da che parte vengo colpito dalle onde.
    È uno stato di equilibrio perfetto, fisico e mentale.
    Vorrei che non finisse mai.

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  • Dai che ci siamo

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    La spiaggia è deserta, nonostante il sole sia sufficientemente forte per far togliere la felpa e restare in t-shirt. È tutto uno spennellare di muri e ringhiere, un avvitare dadi e bulloni ai giochi per i bambini, uno spazzare e rastrellare sabbia. E tutto questo in un silenzio quasi assoluto, interrotto ogni tanto dai versi dei gabbiani o dal rombare, in lontananza, di qualche moto che si arrampica su per il promontorio. Dai che ci siamo.

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  • I tre stati della materia

    Mare d'inverno

    [Lo so, nella foto ce ne sono solo due. Il terzo, quello gassoso, usciva dalla mia bocca. Un freddo becco, come si suol dire.]

  • Nella direzione opposta

    Qua il sole si muove nel senso opposto, rispetto al mare. Bello, certo, molto suggestivo, però non so, non mi convince del tutto. Nel senso che mi sembra sia troppo facile, che mi venga via a poco. Sarà perché, dalle mie parti, il rapporto stretto tra sole e mare te lo devi in qualche modo guadagnare, sia esso, il modo, un dritto o una levataccia. Preferisco l’alba.

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  • Altrove

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    A volte per stare bene non è necessario reinventarsi o fare chissà che. Le cose possono essere le stesse, è sufficiente farle da un’altra parte.

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  • Tamburellando colle dita

    Esco dall’acqua e vado verso il telo, chiudendo per l’ennesima volta il ciclo caldo->fresco. Mi accorgo che ad un paio di teli dal mio è arrivata una tipa; ora è sdraiata a pancia sotto, la faccia rivolta verso di me, le immancabili cuffiette bianche nelle orecchie. Ha una espressione rilassata, disturbata solo dalle occasionali folate di sabbia. Ha il braccio sinistro steso lungo il fianco, rilassato come il viso, ma la mano no, stona rispetto a tutto il resto. Tamburella nervosamente la coscia, a tempo di chissà quale musica. Mi ipnotizza, quasi, mi incuriosisce. Cerco di tamburellare anche io nello stesso modo, ma proprio non capisco, non riconosco il ritmo che ne viene fuori. Mi infilo le mie, di cuffie, e riparto con la playlist, tamburellando la mia musica, così magari lei mi vedrà e penserà “Chissà che musica ascolta, quel tipo”.

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  • La parte misteriosa

    Parcheggio la macchina davanti allo spiazzo che in estate viene occupato dal luna park. Questo tratto di lungomare è quasi disabitato d’inverno, soprattutto di sera, soprattutto tra settimana; infatti ci sono solo io. Mi incammino con calma lungo la strada chiusa che porta al mare, proteggendomi la testa dal vento con il cappuccio della felpa, e man mano che avanzo sento sempre più chiaramente il rumore ritmico della risacca. Proseguo fino a farmi quasi lambire gli anfibi dalle onde, lasciandomi alle spalle il cono di luce dell’ultimo lampione della stradina. Mi giro, la schiena rivolta al mare, verso quel tratto di spiaggia dove ero solito andare da bambino. Chiudo gli occhi e vedo, qui sulla destra, gli ombrelloni disposti a caso nella spiaggia libera, e più in là, a sinistra, quelli ordinati ed allineati dello stabilimento balneare. In mezzo, una specie di terra di nessuno senza ombrelloni ma piena di teli da bagno, e in fondo, vicino al viale, il campo da beach volley. Ci ho passato parecchi anni qui, ci sono praticamente cresciuto, giochi, amicizie, amori, un sacco di cose. Mi giro nuovamente e c’è il mare, che ora mi appare come una massa scura nel buio della sera, ma che rivedo azzurro e piatto. Ripenso alle ore trascorse con mio nonno pescando paganelli sugli scogli, ripenso a quello squalo di gomma che ho perso in acqua e chissà dov’è finito, ripenso alle fughe in moscone per lasciarmi alle spalle la calca dei turisti di agosto. Le prime nuotate al largo, con Enzo, mi sentivo un puntino galleggiante sopra la distesa blu, e mio dio chissà cosa mi starà passando sotto in questo momento. “Dai che non succede niente, cosa vuoi che sia, altre due bracciate e facciamo il giro degli scogli!”, e io mi fidavo quasi sempre, quasi perché quella volta non si è accorto delle meduse, e cazzo come pizzicavano. E quindi non glielo dicevo ma continuavo ad immaginarmi una sagoma scura che intravvedevo passarmi sotto, e in quei momenti le bracciate erano più veloci. Un mare affascinante e misterioso, agli occhi di un bambino. E mi ritrovo a riaprirli quegli occhi ora cresciuti, e c’è di nuovo la massa scura in movimento, una buona amica che ha però perso la sua parte misteriosa. Mi sento un po’ infreddolito e decido che è ora di rientrare, però vengo distratto da una serie di sassi piatti e levigati, finiti li chissà come, perfetti per essere lanciati, ed è un peccato non approfittarne. Due, tre, due, poi quattro salti. Osservo la traiettoria dell’ultimo, che ne fa cinque di salti prima di scomparire, e soddisfatto mi giro per andare, quando mi sembra di sentire un suono, una serie di “sciaff”, sovrapporsi a quello della risacca. Ruoto su me stesso per controllare, e qualcosa mi colpisce una scarpa, oppure colpisco qualcosa con la scarpa. Abbasso lo sguardo e vedo un sasso tondo, piatto, liscio, vicino al piede destro. Sorrido, e andando verso la macchina penso che forse, in fin dei conti, la parte misteriosa della massa scura non è sparita del tutto.

  • Quando il vento e la pioggia si coalizzano

    Non sono saline

    “Certo che ne ha fatta di acqua, qui da voi, eh? Da noi invece abbiamo del casino con la neve”
    “Eh, a ognuno il suo”
    “Ma dai? Non avevo mai fatto caso che ci fossero delle saline anche qui!”
    “Guarda che non sono saline, sono i campi”
    “Ah”

    Il collega bolognese c’è rimasto male.

  • Sitting on the dock of the bay

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    È incredibile come il mare appaia vuoto e pieno allo stesso tempo. Oppure accogliente e pericoloso, un tavolo da biliardo che sotto la superficie ha gli scogli e le cozze attaccate. Ci si taglia, se non si sta attenti. Boh, metafore della vita, credo.

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