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  • Forse è il caso di tirare una riga e guardare di qua e di là

    Non so se è un condizionamento mentale, oppure una cosa anagrafica, o ancora qualcosa di genetico, di innato, fatto sta che, dopo essere entrato negli -anta, mi son messo a riflettere bene su un po’ di cose. Oddio, bene, forse è meglio dire diversamente da prima. Alcune cose mi sono arrivate addosso sbattendo forte, in altre mi ci sono infilato come conseguenza di qualcos’altro.

    Comincio.

    Mia nonna, quella materna, quella con cui ho passato meno tempo della mia vita dall’infanzia all’età adulta, un po’ di tempo fa ha avuto una ischemia, e ora è ferma a letto, non riconosce quasi più nessuno, parla a stento, solo tiene la mano sinistra a fianco la sponda del letto, così quando qualcuno le si avvicina da quel lato può piegare il braccio e farsi stringere la mano. L’accorgermi di questa cosa è stata una mano gelida che mi ha stretto il cuore. Poi ho dovuto far fronte ad un duello interiore, duello che avrebbe, nella mia testa, condotto facilmente alla vittoria l’augurio di una fine rapida ed indolore.
    Facilmente un cazzo.
    È un pensiero logico, anzi è l’unico pensiero logico, ma è imponente, pesante da sostenere. Quando da piccolo/adolescente/l’altro giorno immaginavo me stesso di fronte ad un episodio simile, mi vedevo freddo, distaccato, insensibile quasi al limite del fastidio. E invece proprio no. Sta cosa mi ha preso forte e male e alla sprovvista.

    Francesca. Cresce in fretta, dentro e fuori. E il problema non è mica questo, anzi, la cosa la sta gestendo bene. È che mi trovo a dover imparare a confrontarmi con una persona diversa, una persona della quale conosco sì il nucleo centrale, ma tutto ciò che ci è cresciuto sopra ultimamente, insomma, c’è parecchio da lavorare.

    Il tempo. Lui passa e va, cintura nera di chi-c’è-c’è-chi-non-c’è-non-c’è. Fatto sta che comincio a sentire la mia età, non nel senso di vecchio, ma più di qualcuno che ha vissuto una quantità significativa di vita e comincia ad aver chiaro cosa vuole dal futuro, e comincia ad avere fretta di averlo.

    Poi c’è la rabbia, e l’aver capito di non essere capace di gestirla correttamente. Non sono fatto per arrabbiarmi, mi riesce molto meglio il mandar giù e perdonare. A volte va bene, a volte no.

    E altre cose ci sarebbero da dire, ma sono di contorno, il piatto forte è quello che sta scritto sopra. Sono consapevole di trovarmi in un periodo abbastanza di merda, e che le cose tendono a scurirsi, quando ci entrano in contatto, ma pian piano, una bracciata alla volta, ne sto uscendo. Ah. Non. Fate. L’onda.

  • “Perfect!”

    È un periodo che mi sento così tanto con le chiappe strette che prima, ero lì che giocavo al solito giochino sullo smartphone, e ad un certo punto mi appare la scritta “Perfect!” in mezzo allo schermo. Allora ho detto “Senti, va bene il Perfect!, ma perché? Come lo giustifichi?”.

  • Succede come nei film

    Interno sera, un soggiorno con angolo cottura come tanti. Lui, in piedi, sta stirando, lei, alle sue spalle, seduta sul divano, legge. Lui trattiene a stento il nervoso, accanendosi su ogni singola piega della maglia. Lei, legge. Interno sera, una camera da letto come tante. Lei, a letto, col piumone tirato fin sul viso. Lui, in piedi, si china per farle il bacio della buonanotte. Si rialza, e lei scoppia in lacrime. Lui riesce ad ingoiare quel calzino bagnato che si sente in gola, e con la voce più calma che riesce a fare, la quieta un po’. “Babbo, ma allora lo devo lasciare?” Una morsa fredda gli strizza il cuore, e decide di parlare chiaro, nero su bianco. Lei annuisce, gli occhi ancora velati, lui la bacia di nuovo, gli occhi anche lui velati. Interno sera, il soggiorno di prima. Lui fissa la cornice spenta del televisore.

    E niente, si sa come va a finire.

  • Oggi, delle cose

    Oggi il pensiero più forte è stato che è una questione di numeri, a volte. Essere un numero o dare i numeri, cosa sarebbe peggio? Per me la uno. Che è anche lui un numero.
    Le liste. Mi stanno sul cazzo, le liste.
    Dimmi i tuoi dieci libri dell’anima. Ma vaffanculo. Medium ha cominciato a darmi ai nervi anche per quello, duecento milioni di post di liste di cose.
    Poi prima ho mandato una mail di complimenti ad un tizio sconosciuto, gliela ho mandata perché ha scritto un editor veramente come piace a me.
    Poi ho fatto due cose che mi hanno fatto sorridere e stare bene. La prima, stanotte, ho condiviso al volo un sogno buffo con lei, e sapevo avrebbe gradito. La seconda è una riflessione che ho fatto prima, davanti allo specchio. Ero lì che mi studiavo la barba, per cercare qualche ciuffo ribelle, quando mi son raddrizzato e ho pensato che boh, tutta sta bellezza, non so mica, io. Sarà che ho degli ottimi feromoni. E va benone, eh, mica mi lamento. Di sta cosa volevo parlarne con Piero ma è tardi, faccio poi, lui ha sempre la parola giusta. E se non ce l’ha amen, è comunque un ottimo conversatore.

  • Il rumore delle cose che hanno preso il via e tu non puoi farci nulla

    Sarà il vento, sarà l’aumento della fotofobia, fatto sta che ora come ora mi ritrovo sempre più spesso con il cappuccio sulla testa. Il cappuccio diventa anche una sorta di barriera contro gli stimoli esterni, uno scudo che mi permette di stare concentrato su poche cose, nei momenti in cui ne ho bisogno. E capita che qualcosa interrompa questo stato di concentrazione. Lo sento arrivare da sinistra, un rumore che potrebbe avere molte forme ma che ancora non ne ha nessuna, al di fuori del campo visivo limitato dal paraocchi. Poi ecco, un gruppo di foglie spinte dal vento mi passa davanti strisciando e saltellando sull’asfalto, facendo un rumore che a tratti è pioggia battente, oppure legna crepitante, oppure altro, il limite è l’immaginazione. E poi sparisce, alla destra del cappuccio, e sparisce anche il suono.
    Ecco, per me è questo il suono delle cose che si mettono in moto e tu non puoi farci nulla: un suono indefinito, senza una connotazione positiva o negativa, quella eventualmente gliela associo io, in funzione del mio stato d’animo.
    E bon, penso, tra poco arriva l’inverno, le cose vanno avanti, c’mon, vediamo come va.

  • Poi dice la saggezza popolare

    Dunque l’altra sera ero lì, le spalle ancora coperte da uno dei miei comfort movie, in attesa che il cervello decidesse di averne avuto a sufficienza della giornata. Ma niente da fare, mi ritrovavo ancora a saltare da un pensiero all’altro senza apparente soluzione di continuità, e allora ho deciso di metter mano e matita al giornaletto delle parole crociate. Il gioco si chiamava “Casellario”, date 0) una serie di sillabe ordinate alfabeticamente 1) una serie di definizioni, bisognava riempire lo schema formando le parole definite dalle suddette definizioni, e nelle caselle con il doppio bordo sarebbe apparso un proverbio. Così ho cominciato a scrivere e depennare, meticolosamente ma senza fretta, lasciando correre i pensieri, riempiendo i vuoti. E ad un certo punto mi son sentito pronto ad azzardare una soluzione, senza aver terminato tutte le definizioni. “Le parole non hanno limiti”. Interessante, e verosimile, ho pensato. Ma non ero proprio soddisfatto, così ho deciso di finire definizioni e sillabe. “Le parole non fanno lividi”.
    Rileggo.
    “Le parole non fanno lividi”.
    Mi è montato un gran nervoso.
    Ma che cazzata.
    Li fanno, i lividi. E rompono le ossa, squarciano le carni, gelano il sangue nelle vene, oppure lo fanno ribollire.
    Ma vai a cagare, vai.