È la terza notte di fila che ti sogno.
Ci sono state situazioni interessanti, momenti surreali, abbiamo sgridato, avuto paura, limonato.
Pensavo, se ti sogno anche stanotte me la dai? Secondo me ci può stare, eh.
È la terza notte di fila che ti sogno.
Ci sono state situazioni interessanti, momenti surreali, abbiamo sgridato, avuto paura, limonato.
Pensavo, se ti sogno anche stanotte me la dai? Secondo me ci può stare, eh.
Apro gli occhi con la sgradevole sensazione di essere impossibilitato a muovermi.
Provo, e le gambe, le braccia e la testa sono come bloccate su una superficie di gomma semirigida. Mani e piedi riesco a muoverli, ma questo non mi consola, anzi.
Qualcosa mi ostruisce la bocca, consentendomi comunque di respirare.
Chino a fatica la testa verso il basso, e mi intuisco steso su un lettino, ancorato da fasce, coperto da un lenzuolo dalla vita in giù; sento arrivare la prima, grossa, ondata di panico.
Percepisco e intravedo un ambiente asettico, freddo come le luci al neon che lo illuminano, macchinari, tubi, LED che si accendono e spengono, carrelli con attrezzi ben appoggiati in ordine: sono in una specie di sala operatoria.
Il panico è oramai una piena di fiume; mi dimeno, inutilmente, cerco di urlare, ma escono solo flebili mugolii. Non proprio inutilmente, perché una figura entra da sinistra nel mio spazio visivo.
Non è riconoscibile, ha il capo coperto da un qualcosa di tessuto, una grossa maschera con lenti opache davanti a occhi e naso, una mascherina verde per la bocca, e quello che può essere un camice che parte dal collo e arriva dove io non riesco a vedere.
Si avvicina lentamente, e mentre mi sforzo di capire chi è, una luce abbagliante si accende sopra il mio volto, vanificando ogni mio sforzo. L’unico dettaglio nuovo che percepisco è lo strumento di metallo, lungo e scintillante, che tiene in mano.
Perdo il controllo e urlo, senza riuscire ad emettere un suono.
La figura si avvicina, mi appoggia la mano avvolta nel guanto di lattice sul torace, e noto il tessuto della mascherina deformarsi a causa del sorriso spuntato sulla bocca che non vedo, come a volermi tranquillizzare. Come un sussurro impercettibile, “Non ti farò male”. E alza lo strumento che ha in mano.
Non è un bisturi, ma la lama c’è tutta. La vedo scintillare, una lama senza fascino, dritta, fatta con uno scopo unico: tagliare.
E comincia ad usarla, senza preavviso.
Io urlo di nuovo, un urlo lungo e silenzioso, in attesa di sentire arrivare l’ondata di dolore.
Quando la gola brucia, smetto, ché il dolore non è arrivato, nonostante la figura stia proseguendo con il suo lavoro di incisione.
Sento la lama scendere nella carne, sempre più giù, la sento curvare per percorrere lo spazio vuoto tra due costole, sento il sangue scorrere lungo il fianco, la sento emergere dal taglio, sento il rumore di lacerazione quando le mani allargano il taglio, sento la pressione sulle costole, sento il crack delle stesse quando la pressione è diventata sufficiente, ma no, come aveva detto la figura che si sta accanendo su di me, non sento dolore.
Il lavoro procede febbrile, tra crack e incisioni, io e la figura oramai verniciati del mio rosso cupo, e finalmente termina, con il rumore della lama appoggiata a qualche superficie metallica.
Io, che avevo distolto lo sguardo, spettatore/protagonista insensibile di quello scempio, riabbasso gli occhi, e vedo la figura con un cuore, il mio cuore, ancora sprizzante sangue, in mano.
Il sorriso deforma nuovamente la mascherina, e un nuovo sussurro “Questo lo tengo io, a te non serve”.
Poi solleva la maschera opaca, e riesco così a vedere gli occhi della figura, e la riconosco immediatamente. Con dei mugugni le faccio capire che voglio parlare, e sento la bocca finalmente libera.
“Cretina che non sei altro, brutta testa di cazzo, è sempre stato tuo, c’era bisogno di fare tutto questo casino?”
Poi mi sono svegliato.
E magari uno si chiede per quale motivo alle sette della mattina abbia già voglia di dare fuoco a chiunque.
Sono quasi arrivato a casa, l’ultima galleria, poi lo svincolo, poi ci sono. Il traffico è intenso, come non lo vedevo da parecchio qui, forse solo d’estate. Entro nella galleria trascinato dalla corrente di questo fiume di auto, con la vista che si occupa a tenere sotto controllo gli stop delle auto che mi precedono e con la testa sovrapensiero, ripensando ai giorni trascorsi fuori casa. E procedo così, con le lampade gialle della galleria che si susseguono abbastanza velocemente, lampade stop pensieri, lampade stop pensieri, lampade stop pensieri. Però madonna non passa più sto tunnel, penso, sarà la stanchezza ma mi pare più lungo del solito, vabbè proseguo, ché non posso fare diversamente. Lampade stop pensieri, lampade stop pensieri. No c’è qualcosa che non va, sta durando veramente troppo, non è che mi sono sbagliato e sto più indietro rispetto a dove pensavo? Non mi pareva, ho pure visto il cartello. Poi, in fondo, più avanti, vedo finalmente la fine delle lampade gialle, e il cartellone luminoso dice “Ci scusiamo per il disagio, siamo stati costretti ad allungare temporaneamente la galleria”. Finalmente sono fuori, rallento e imbocco lo svincolo.
[Una doppia epifania stamattina, ché già è raro ricordare cosa sogno, e in più interpretarlo così facilmente, non succedeva da un pezzo]
Sono le 16, e grazie al taglia-e-cuci con gli orari posso uscire, ché ci sono km da percorrere. Neanche fossi Elwood, ho il serbatoio pieno, e il pacchetto di sigarette è intero, quindi posso partire tranquillo. E felice, ché per me guidare è sempre stato un piacere.
Hey man, you want girls, pills, grass? C’mon.
I show you good time.
This place has everything. C’mon.
I show you.
L’autoradio fa il suo dovere, ubbidiente, e mi spara fuori la colonna sonora di oggi, una soundtrack sentita più e più volte, ma comunque differente ad ogni viaggio. Il corpo è già un tutt’uno con il sedile, una mano sul volante e l’altra sul cambio – mai riuscito a tenere le mani alle 10:10 – e dal cambio parte una vibrazione piacevole che arriva fino al bicipite, quasi alla spalla.
I wish I was a messenger, and all the news is good.
I wish I was the full moon shining off your camaro’s hood.
A volte mi sembra di non accorgermi della strada che percorro, come se guidassi in uno stato di trance, una trance lucida però, ché non tiro dritto nelle curve, freno se ho una macchina più lenta davanti, e metto anche la freccia per effettuare il sorpasso. È come se avessi una serie di interrupt hardware che tengono sotto controllo i segnali che arrivano dalla strada, mentre il resto della CPU è impegnata in chissà quali processi.
Emptiness is loneliness, and loneliness is cleanliness
And cleanliness is godliness, and god is empty just like me
Vedo la strada sparire veloce sotto il cofano della macchina. È un percorso che ho seguito parecchie volte, con destinazioni differenti, in vite differenti, in situazioni differenti; è un percorso che conosco, ma ogni volta è come se fosse la prima volta, come se la famosa farfalla della teoria del caos mi facesse compagnia durante ogni viaggio, e ad ogni battito d’ali, a New York non so, però qui cambia qualcosa. Non migliore o peggiore, non più bello o più brutto, solo diverso.
Sleight of hand
Jump off the end
Into a clear lake
No one around
La metropoli si annuncia con una lunga fila di luci rosse degli stop, che si accendono con una frequenza causale ma comunque alta. Mai avuto problemi a guidare, nemmeno nel traffico caotico delle grandi città. Il trucco che uso è quello di sapere con sufficiente anticipo in che direzione andare, i cambi di corsia all’ultimo momento sono il male, ed è ovvio che poi gli altri automobilisti poi s’incazzano. Il traffico aumenta proporzionalmente all’avvicinarsi alla città vera e propria, procedo quasi a passo d’uomo ma non mi interessa, il più è fatto. Abbasso completamente il finestrino nonostante sia freddo, e con il gomito fuori mi accendo l’ennesima sigaretta e guardo dentro le altre macchine. Vedo per lo più facce serie e tirate; nell’auto a fianco un uomo parla allo specchietto retrovisore, riconosco il gesto e sorrido pensando alle volte che lo faccio con Francesca, che mi parla dal seggiolino sul sedile posteriore. Poi una notifica sul cellulare, «Dove sei?», e in risponda mando la mia posizione rilevata dal GPS, ché in effetti non ho idea del punto preciso in cui mi trovo, so solo che sono grosso modo al 95% del viaggio.
One look could kill
My pain, your thrill
I want to love you but I better not touch (Don’t touch)
I want to hold you but my senses tell me to stop
I want to kiss you but I want it too much (Too much)
All’arrivo manca giusto il tempo di parcheggiare l’auto. La fortuna mi assiste e trovo un posto libero proprio di fronte al palazzo, perfetto. Spengo la radio e comincio la manovra di parcheggio ringraziando mentalmente, una volta ancora, l’inventore del servosterzo, ché lo spazio di manovra è poco. «Alè» penso «tutto in una manovra come al solito, bravo» quando mi scappa il piede della frizione, picchio abbastanza forte sul muso della macchina dietro, e con la testa sul poggiatesta del sedile. E mi sento subito strano, come se stessi svenendo, e mi pare strano perché la botta in testa non era poi così forte, ma niente, dal grigio al nero in pochi istanti…
L’ultima frenata del treno, più brusca, mi sveglia. Vedo il marciapiede scorrere piano fino a fermarsi, recupero lo zaino e il cappotto, mi vesto, scendo dal vagone e mi avvio verso il piazzale illuminato alla ricerca del bus, sorridendo tra me e me per questa pataccata di sogno. Intanto, una notifica sul cellulare. «Dove sei?».
Mi sveglio in piena notte, disturbato da un rumore. È ritmico, il rumore, mi desta dal sonno lentamente, immagino sia Francesca che mi chiama per andare in bagno. Scendo dal letto e il freddo del pavimento contro la pianta dei piedi mi sveglia del tutto. Però Francesca non è sveglia, è a letto e dorme; ormai alzato, mi avvicino al suo letto per controllare che non si sia scoperta. È tutto a posto, anche se ha il sonno un po’ agitato: ruota la testa da una parte all’altra e verso il fondo del letto si vede il movimento dei piedi sotto le coperte. Mi giro per tornare a letto, ma sento che c’è qualcosa che non va. Mi guardo attorno, ma il resto della casa è a posto, non c’è niente di anormale. Allora torno a Francesca, ma anche lì mi sembra tutto normale, la testa che si sposta sul cuscino e i movimenti sotto le coperte. Le coperte. LE COPERTE. Storco il naso, il problema è lì ma continuo a non capire. Poi all’improvviso tutto è chiaro, lampante, e il terrore mi blocca. Non mi tornano le proporzioni, la posizione del movimento in basso, rispetto alla testa. Francesca non è così alta, non è possibile che arrivi fin quasi ai piedi del letto. Che cavolo c’è sotto le coperte? Riprendo il controllo e le tolgo. Dalle lenzuola emerge una specie di scarafaggio enorme, lucido, che rapido si lancia giù dal letto in cerca di un altro rifugio. Senza pensarci troppo calo il piede nudo sull’animale, schiacciandolo in una poltiglia schifosa. Rimango fermo in piedi ancora un po’, con il cuore che batte all’impazzata, poi un conato di vomito mi scuote e corro in bagno. Ritorno con in mano straccio e secchio, e ripulisco tutto, gettando i resti in una busta di plastica. Francesca, nel frattempo, ha continuato a dormire, un poco più tranquilla.
Si sveglia all’improvviso a causa di una fitta lancinante al piede, in corrispondenza del taglio che si è procurato qualche giorno prima in spiaggia. Scosta le lenzuola diventate, causa il caldo, un tutt’uno con il corpo, e guarda la ferita. Non ha un bell’aspetto, è gonfia e arrossata, ancora non rimarginata, più profonda di quanto gli era sembrata. Forse è il caso di darci una ripulita; prende un paio di cotton fioc e il disinfettante e si mette all’opera: prima l’esterno, e la pelle attorno, poi con delicatezza la apre per rimuovere gli eventuali granelli sabbia e pezzi di conchiglie rimasti all’interno. Il disinfettante brucia sulla carne viva facendo il suo lavoro di pulizia, e lui si sforza di non fare movimenti bruschi. No, aspetta, però c’è qualcosa che non va. Aprendo un po’ di più i lembi della ferita si accorge che sotto, nella carne, c’è qualcosa di bianco e lucido; pensa ad altri pezzi di conchiglia, finiti più in profondità, ma no, non ci assomigliano. Poi, d’un tratto, quando è ancora lì ad osservarle, le cose bianco-lucide si muovono, e lui sente di nuovo la fitta lancinante che l’ha svegliato. La fitta è lunga, questa volta, legata indubbiamente al movimento, movimento che gli mostra cosa sono le cose bianco-lucide. Denti, piccoli ma affilati, due file da quattro che formano una bocca in miniatura, che mordono e scatenano le fitte sentite. Lui si solleva dal letto, urlando, spaventato, e sbilanciato dalla foga del gesto cade sul pavimento.
[Poi mi sono svegliato, stamattina. Era da un po’ che mi lamentavo del fatto che non ricordavo i sogni. Tiè, servito. Ma va bene così, mi accontento di un piccolo incubo. Ah, il taglio sotto il piede ce l’ho sul serio, però tranqui, niente denti. Anche se, in effetti, è un po’ arrossato…]